lunedì 21 dicembre 2015

La val Canneto, tra storia, natura e tradizioni, una lunga traversata fino a Forca Resuni e monte Capraro




Camminare lungo la valle di Canneto vuol dire immergersi in uno straordinario ambiente dove la natura si manifesta sotto tutti i suoi migliori aspetti ma non soltanto: è uno scrigno inesauribile di storia millenaria e tradizioni.

Qui ogni pietra è sacra, ogni vecchia casa in rovina ha un mistero da svelare, dietro ogni muro c'è una tradizione popolare che aspetta di essere raccontata,

La valle di Canneto è un profondo solco boscoso, racchiuso da magnifiche pareti montuose che culminano con vette quasi tutte oltre i 2000 metri. In alcuni casi i versanti delle montagne si avvicinano a tal punto che la valle diventa un'oscura e stretta gola, con un torrente che a intervalli esce dalle rocce per poi scomparire interrandosi nel suolo calcareo per poi di nuovo riaffiorare alla base di enormi massi creando specchi d'acqua, brevi ruscelli e cascate. E' il fiume Melfa, le cui sorgenti ufficiali, cariche di storia e leggende, si trovano poco a monte del Santuario ma che in realtà sono presenti in tutta la valle.

E' erra di lupi, orsi, cervi, caprioli e tanti altri animali selvatici. Non è difficile avvistarli.
Il camoscio è il padrone incontrastato delle alte quote ed è presente ovunque, nelle aride pietraie e tra le rocce oltre i 1800/2000 metri di quota.

Il punto di partenza della nostra lunga escursione è il bianchissimo Santuario della Madonna di Canneto, che brilla nell'oscurità della fitta faggeta. La struttura racchiude la preziosa statua della "Madonna Bruna", imperniata di numerose e affascinanti leggende popolari, molto venerata dalle popolazioni di almeno quattro regioni e parecchie generazioni.

Il percorso nel fondovalle si sviluppa per circa 8 km. in lieve salita. Il lato destro del sentiero (sinistra orografica) è sempre affiancato dal letto del torrente. Lungo il tragitto si incontrano alcune strutture. la prima, a poche decine di metri dalla partenza, è la Casa Salesiana. Segue dopo 4 km. il rifugio Acquanera del CAI di Cassino e successivamente, in un'ampia radura accanto accanto al torrente, i ruderi del Casone Bartolomucci, la residenza di un'antica famiglia di proprietari terrieri.
Giunti in località Tre Confini, alla quota di 1496 metri, il fitto bosco di faggi inizia ad aprirsi in ampie e luminose radure che svelano i tormentati rilievi della Camosciara, con le cime Tre Mortari, Balzo della Chiesa e monte Capraro, tutti caratterizzati da formazioni rocciose che emergono dalla fitta vegetazione di faggi e conifere, in particolare pini mughi.

La valle dei Tre Confini si sviluppa per circa 2 km. in ripida salita e su sentiero tortuoso e con vegetazione rada, costituita maggiormente da conifere. Sul lato destro incombono le solenni muraglie rocciose dei monti della Meta che proprio qui culminano con il monte Petroso, 2249 metri, la cui visione ci accompagna fino al valico.
Dai 1496 metri di quota dei Tre Confini fino ai 1952 metri del valico, il dislivello è di 500 metri.

Giunto a Forca Resuni, l'escursione potrebbe concludersi perchè la bellezza del luogo raggiunto vale già tanto, ma osservare da vicino la maestosità del monte Petroso che sembra chiamarci, oppure la stimolante vicinanza del monte Capraro, ci fa sentire la necessità di completare l'itinerario.
La decisione è presto presa. Si punta sul monte Capraro e alla sua vicina vetta di 2100 metri che raggiungiamo con estrema fatica, in quanto già abbastanza provati dall'impegnativa salita lungo la valle dei Tre Confini.

dalla cima del Capraro, panorami eccezionali su tutta la Marsica e le montagne più lontane. Non da meno il pungente e balsamico profumo di resina che ci ha accompagnato lungo tutta la salita, un vero toccasana contro lo smog che si respira in città.
Sulla stretta cima del Capraro, tra pini mughi secolari e visioni aeree sul sottostante passo del Cavuto abbiamo completato la nostra traversata.

Per il ritorno, siamo scesi lungo il medesimo itinerario della salita, giungendo in una val Canneto che ci è sembrata più lunga e infinita rispetto all'andata, con le ombre della notte che sopraggiungeva e gli ultimi raggi del sole che arrossava i contrafforti rocciosi del monte Petroso che persino dopo il tramonto e con il cielo stellato, è rimasto illuminato da una tenue e particolare luce bianca.

Percorsi circa 22 km. per 1200 metri di dislivello in 9 ore.












































lunedì 7 dicembre 2015

Catena delle Mainarde – Lungo la cresta della Metuccia – secondo tentativo: RIUSCITO!



La giornata trascorsa sulla catena delle Mainarde lo scorso giovedì 3 dicembre, è stata un mix di combinazioni vincenti tra clima, caratteristiche fisiche del territorio, tipo di innevamento, nonché il periodo dell’anno che con la sua particolare inclinazione solare mi ha messo a disposizione una luce perfetta per creare composizioni fotografiche andate ben oltre le mie aspettative. 
Non posso dire di aver fatto la più bella escursione dell’anno ma sicuramente ho portato a casa una serie di fotografie che valgono un’intero anno di scatti. Davvero! 

Ma veniamo al racconto.
Dopo il recente e fallito tentativo di raggiungere in solitaria la vetta della Metuccia, riprovo la salita per lo stesso sentiero del versante molisano che avevo percorso un mese fa.
Sono quindi partito dal piazzale delle Forme, 1400 mt. in località Valfiorita, nel comune di Pizzone (IS).

Trovo un bosco completamente diverso rispetto a un mese fa, addormentato nel silenzio invernale, privo di quelle foglie dorate che lo rendevano magico e dalle atmosfere irreali.
La neve caduta di recente ricopriva il sentiero con uno strato che aumentava di spessore con il progredire dell’ascesa. Decine di orme di animali selvatici segnavano la neve e mi divertivo a cercare di riconoscerne gli autori.

Al termine del bosco, dopo una faticosa salita su neve a tratti alta e cedevole, l’alta val Pagana offriva spettacolari visioni sul monolito più elegante di tutto il Parco Nazionale d’Abruzzo/Lazio/Molise, una montagna dall’aspetto fiero e selvaggio, Sua Maestà, come viene definita, il monte Meta, o semplicemente La Meta in toponimo locale.
A sinistra del monte Meta, il passo dei Monaci, 1967 metri, si faceva sempre più vicino.

Affondando nella neve fin sopra le ginocchia, riesco lentamente ad arrivare al valico.
Da qui punto decisamente a sinistra, percorrendo la bella e facile cresta ondulata tra straordinari panorami in ogni direzione, in particolare sul versante est, che strapiomba con pareti verticali e circhi glaciali sui boschi della valle. L’innevamento è molto irregolare a causa del forte vento che ha accompagnato le recenti nevicate lasciando in alcuni tratti l’erba a vista, e accumuli consistenti in altre zone.

Percorro in un’ora e mezzo quasi tutta la stupenda cresta della Metuccia, superando alcuni piccoli pianori sommitali di origine carsica racchiusi da brevi pareti rocciose e arrivando a poca distanza dalla cima del Monte A Mare, 2160 mt. che non raggiungo a causa delle poche ore di luce che caratterizzano questo periodo dell’anno ed il pensiero di affrontare da solo il bosco di notte era il primo dei pensieri.
Mi fermo infatti su una bellissima vetta dall’elegante profilo conico e con una piccola croce metallica sulla cima. Peccato non abbia un nome ma quella per me rappresenta la conquista della mia giornata lungo un meraviglioso percorso che è andato ben oltre le mie aspettative. I miei programmi infatti erano quelli di raggiungere soltanto le vetta della Metuccia, ma dal momento che questa non è evidenziata da nessuna struttura e la neve ne ricopriva la scritta sulla pietra, l’ho superata continuando a camminare per un’altra buona mezz’ora.

Nel percorso a ritroso, ritornando al passo dei Monaci, mi sono mantenuto basso rispetto al filo di cresta per evitare i continui sali scendi affrontati all’andata e per mantenere un’andatura più veloce in previsione della scarsa luminosità che altrimenti mi avrebbe sorpreso e onestamente affrontare da solo il sentiero nel bosco con il buio era il primo dei miei pensieri.
Giungo infatti al piazzale del parcheggio con il giorno e come si dice spesso  in questi casi, stanco ma felice!




Il paese di Pizzone (IS) e la catena della Metuccia

Il cartello del Parco all'ingresso del pianoro Le Forme

Scorcio panoramico a sud, verso le montagne molisane 

La Meta e il suo Gendarme, 2242 mt. e 2200 mt. con il passo dei Monaci, 1968 mt. a sinistra 

La cresta della Metuccia e il valico del passo dei Monaci

Gendarme della Meta, 2200 mt.

Solo, io e il monte Meta

Eccomi sulla cresta della Metuccia

Dalla cresta della Metuccia, vista sulla lunga dorsale del monte Miele e più lontano, il gruppo del monte Greco

Il monte Meta, 2242 mt. dalla cresta della Metuccia

Le ripide pareti orientali delle Mainarde


Le pareti orientali della Metuccia strapiombanti sulla valle ed a destra la vetta

Dalla cresta della Metuccia verso la val Pagana e la lunga dorsale del monte Miele



 Cima senza nome, altitudine 2150 mt. circa

Cima senza nome e sullo sfondo il monte a Mare, 2160 mt.

Cresta della Metuccia

Monte Cavallo e monte Forcellone

La val Pagana da passo dei Monaci

Inizio della discesa verso la val Pagana

Gendarme della Meta, 2200 mt. - particolare

Eccomi alla piana delle Forme







lunedì 26 ottobre 2015

Mainarde tempestose e dorate


In discesa, tra le curve della strada di montagna, l’auto scivola lenta e silenziosa in una fresca mattina d’autunno. E’ ancora notte ed i piccoli paesi si susseguono uno dietro l’altro con le loro luci che occhieggiano tra i boschi scuri. 

Curva dopo curva la strada mi porta dentro l’antico borgo di Filignano, nella piccola regione del Molise, lo attraverso nei suoi stretti vicoli e nel buio riconosco case e angoli che ho visto tante volte fin da bambino. Supero il paese e poi altri piccoli gruppi di case addormentate, infine raggiungo la superstrada per Roccaraso, mentre a oriente il cielo assume una leggera colorazione bianca e turchese svelando i neri profili delle montagne. Le ombre si rischiarano mentre la notte indugia ancora tra gli alberi e nelle vallate più strette.

I paesi iniziano a spegnere le loro piccole luci dorate.

Ho come un fremito che non è dovuto al freddo. E’ entusiasmo ed emozione miste a quel timore ancestrale sempre presente e che non mi abbandona mai ogni volta che affronto una nuova avventura in montagna, che sia in solitaria o condivisa con gli amici e lo starsene da soli non fa altro che amplificare tali sensazioni.

Le Mainarde sono le montagne di casa, quelle che appartengono all’origine di una parte della mia famiglia. Quelle montagne che ho sentito sempre nominare dai grandi quando ero un bambino e che per questo mi hanno sempre incuriosito, facendo crescere giorno dopo giorno il desiderio di scoprirle e frequentarle.  

Ho sentito parlare tanto dei loro paesi, della loro gente, delle tradizioni, della guerra che costrinse gli abitanti di quei paesi a sfollare nelle città del nord e al loro rientro trovarono le case ridotte in macerie e con le loro stesse mani le ricostruirono, pietra su pietra. Così fecero anche i miei nonni e mio padre quando ricostruirono la loro casa che ancora oggi frequento e che amo particolarmente.
Quella delle Mainarde è gente forte, che ha affrontato e superato tante pieghe della vita e che vive in un luogo dal clima spesso duro, ma si è saputa adattare.
Amo questa terra e la loro gente.

Guido rilassato e senza pensieri sulla superstrada mentre un’invadente alba travolge l’orizzonte che si tinge di rosso. In poco tempo giungo a Pizzone, la porta delle Mainarde molisane.

Mi fermo su un tratto di strada panoramica del paese, scatto qualche foto direttamente dal finestrino della macchina per catturare lo spettacolo del sole che nasce, poi mi rimetto in movimento, supero le ultime case e proseguo in salita lungo la strada che si snoda come un lungo serpente in circa venti tornanti in una fitta faggeta e in poco più di mezz’ora giungo nell’ampia conca prativa di Valfiorita. 

Ormai è giorno ma le ultime stelle tardive brillano ancora sopra un cielo quasi completamente azzurro. A occidente, la lunga cresta della Metuccia è orlata da pesanti nubi che ne impediscono la vista.
Nel grande parcheggio c’è un’altra macchina che mi ha preceduto. Non sto da solo e questa cosa mi rincuora un po’trasmettendomi una carica in più. Indosso gli scarponi, metto lo zaino in spalla e parto. La macchina fotografica è sempre in prima linea, pronta all’uso. 
Parto.



Il sentiero largo e comodo si stacca dal piazzale e si snoda tra grandi faggi inizialmente accanto ad un piccolo ruscello che scorre silenzioso.  Si raggiunge subito un’ampia radura ancora in ombra, simile ad un anfiteatro chiuso da una cortina di alberi in veste autunnale, dai cromatismi talmente vivi che sembrano accendersi di luce propria.

Quando i primi raggi di sole iniziarono a colpire i rami frondosi,  innumerevoli luci verdi, oro e argento si accesero in uno spettacolo variopinto che mi distoglieva rallentando il mio passo.
Attraversata la radura, il sentiero si restringe inerpicandosi tra la foresta, in un tappeto di foglie e muschio profumato. Si passa accanto ad un recinto che racchiude un serbatoio e si aggira sulla destra seguendo i bolli rossi e bianchi.





Il tempo sembra cambiare in fretta. L’atmosfera si fa più cupa ed i faggi si scuotono sotto forti raffiche di vento. I rami scricchiolano, gemono, lasciano cadere una pioggia d’oro che si deposita sui massi calcarei aggiungendo foglie su foglie.
La salita a tratti è molto ripida e faticosa. Le atmosfere del bosco offrono sensazioni indescrivibili.
Il cielo grigio e il fitto bosco limitano la luminosità ma nonostante questo,  sembra che la foresta voglia restituire tutta l’energia del sole assorbita durante l’estate e ogni singola foglia si trasforma in una piccola fonte di luce calda che ammorbidisce e rischiara tutto l’ambiente. 









Al limitar del bosco, gli ultimi alberi si spingono solitari sulle aride ed estese pietraie. Qualcuno cresce con tenacia e resistenza fra le rocce verticali, sfidando ogni legge della fisica ed elemento climatico.
I pascoli d’alta quota regalano atmosfere più dolci e bucoliche in un ambiente dall’aspetto selvaggio e solitario. Un gruppo di mucche pascolano nei pressi di un antico stazzo, dove rimangono soltanto le pietre che ne delimitano il perimetro.
Il sentiero va sempre più su, passando accanto ad una sorgente. Un escursionista seduto su un gruppo di rocce mi volge lo sguardo. Ci salutiamo. Mi fermo anch’io e mi tolgo lo zaino. Cerco il cappello di lana, lo metto e riparto subito.

Gli ampi prati si restringono fino a trasformarsi in piccoli fazzoletti erbosi racchiusi tra rocce e massi. Si sale su stretti gradini naturali mentre il valico si fa sempre più vicino, sovrastato da un cielo basso e scuro. Il vento adesso è molto più forte e freddo.
In pochi minuti raggiungo i quasi 2000 metri del passo dei Monaci, un luogo che per molto tempo ha rappresentato l’unica via di comunicazione tra versante laziale e abruzzese, particolarmente battuta dai monaci benedettini dell’Abbazia di Montecassino.

Il Gendarme del monte Meta cattura lo sguardo anche se per metà è coperto da un cielo che sembra essergli caduto sopra. Quel sentiero che lo attraversa sul versante meridionale è un vero solco scavato da milioni di passi che per secoli lo hanno inciso.



Ma quel “mezzo” Gendarme è l’unica montagna parzialmente visibile sul valico, mentre lo sguardo verso sud est si perde sulla magnifica e boscosa val Pagana dai brillanti colori, la conca di Valfiorita con il lago delle Forme e poi ancora oltre, sulla maggior parte delle 
montagne dell’Appennino molisano.




C’è qualche raro escursionista diretto sul monte Meta, in un’atmosfera sempre più tempestosa e cupa.
La nebbia conquista la montagna fin dalla base, inghiottendo gli ultimi escursionisti più lontani.
Dopo una breve sosta di ricognizione, decido di proseguire sui prati a sinistra, dove non esiste un vero sentiero ma intuitivamente si segue tutta la cresta ondulata ed erbosa fino alla vetta della Metuccia che insieme al monte a Mare è mio obiettivo della giornata.

Sull’erba ci sono numerose tracce fresche di camosci.
Il vento romba nelle orecchie, mi spinge, mi rallenta il passo. Gli occhi lacrimano, non vedo quasi nulla.
La nebbia mi avvolge e mi chiude come in una scatola grigia e fredda.
Stringo gli occhi in una lotta che dovrà per forza avere un vincitore, ma quello non sono io.
Decido di rinunciare.

Torno indietro. 

Il prato non è segnato, non c’è una pietra, un paletto, un piccolo cespuglio che mi dia un punto di riferimento. Nulla, soltanto erba bassa frustata dal vento. Vado in discesa cercando di riconoscere un particolare, anche piccolo e insignificante che avevo visto salendo, ma tutto sembra essere uguale.
Non credevo di aver camminato così tanto dopo aver raggiunto il passo dei Monaci. 

Quando avevo deciso di rinunciare, l’altimetro segnava già 2100 metri. Se procedevo per un altro quarto d’ora sarei probabilmente arrivato in cima, ma avrei avuto bisogno di un sicuro punto di orientamento perché la vetta della Metuccia non si trova esattamente lungo la cresta ma leggermente spostata sulla sinistra e poi, al di là delle sfide con noi stessi e con l’ambiente, la montagna la vivo da sempre con lo scopo principale di fotografarla nei piccoli e grandi particolari, ammirando i suoi paesaggi e spazi sconfinati, perdendomi nella contemplazione e trovando quella sintonia che mi unisce all’ambiente, somatizzandone i contenuti anche non visibili, cosa che nebbia e maltempo non permettono rischiando di andare contro la mia vera passione.
Vado sempre in discesa e l’inquietudine sale. Mi metto anche a correre sul prato cercando di raggiungere al più presto il valico.
Una striscia irregolare di pietre calcaree a destra segnano il bordo del prato, dove inizia il precipizio che in condizioni di migliore visibilità, sarebbe stato uno spettacolare punto di vista tra i balzi rocciosi che scendono a picco sui prati sottostanti. Finalmente ritrovo un punto di riferimento.
Seguo il bordo del prato e inizio a scorgere un panorama più vasto che mi aiuta nell’orientamento.
Adesso sono di nuovo al passo dei Monaci e ritrovo il sentiero nonchè il mio entusiasmo di sempre.

L’abbassamento di quota segna anche il limite delle nubi che ora restano relegate oltre la quota del valico, continuando a rovesciarsi con violenza sui fianchi delle montagne. Un ultimo sguardo ancora,  verso quella forte manifestazione della natura che nonostante mi abbia fatto rinunciare all’obiettivo della giornata, mi trasmette forza e ammirazione.


Ripercorro in discesa le praterie alte, passo accanto alla sorgente, saluto le mucche, raggiungo i primi alberi isolati ed entro nella faggeta dove il vento agita le chiome con violenza e dove il vigoroso stormire del fogliame è simile al fragore di una grande cascata che non finisce mai e che mi accompagna fino alla macchina.




Queste Mainarde così generose e prodighe di emozioni, mi salutano con le prime gocce di una pioggia leggera che mi accompagna per il breve viaggio fino a casa. 

Mi sento soddisfatto e sono certo, tra le tante emozioni, di aver persino vissuto qualche breve attimo di felicità.