In discesa, tra le curve della strada di montagna, l’auto
scivola lenta e silenziosa in una fresca mattina d’autunno. E’ ancora notte ed
i piccoli paesi si susseguono uno dietro l’altro con le loro luci che occhieggiano
tra i boschi scuri.
Curva dopo curva la strada mi porta dentro l’antico borgo di Filignano, nella piccola regione del Molise, lo
attraverso nei suoi stretti vicoli e nel buio riconosco case e angoli che ho
visto tante volte fin da bambino. Supero il paese e poi altri piccoli gruppi di
case addormentate, infine raggiungo la superstrada per Roccaraso, mentre a
oriente il cielo assume una leggera colorazione bianca e turchese svelando i
neri profili delle montagne. Le ombre si rischiarano mentre la notte indugia
ancora tra gli alberi e nelle vallate più strette.
I paesi iniziano a spegnere le loro piccole luci dorate.
Ho come un fremito che non è dovuto al freddo. E’ entusiasmo ed emozione miste
a quel timore ancestrale sempre presente e che non mi abbandona mai ogni volta
che affronto una nuova avventura in montagna, che sia in solitaria o condivisa
con gli amici e lo starsene da soli non fa altro che amplificare tali
sensazioni.
Le Mainarde sono le montagne di casa, quelle che appartengono all’origine di una
parte della mia famiglia. Quelle montagne che ho sentito sempre nominare dai
grandi quando ero un bambino e che per questo mi hanno sempre incuriosito,
facendo crescere giorno dopo giorno il desiderio di scoprirle e
frequentarle.
Ho sentito parlare tanto dei loro paesi, della loro gente, delle tradizioni,
della guerra che costrinse gli abitanti di quei paesi a sfollare nelle città
del nord e al loro rientro trovarono le case ridotte in macerie e con le loro
stesse mani le ricostruirono, pietra su pietra. Così fecero anche i miei nonni
e mio padre quando ricostruirono la loro casa che ancora oggi frequento e che
amo particolarmente.
Quella delle Mainarde è gente forte, che ha affrontato e superato tante pieghe
della vita e che vive in un luogo dal clima spesso duro, ma si è saputa
adattare.
Amo questa terra e la loro gente.
Guido rilassato e senza pensieri sulla superstrada mentre un’invadente alba
travolge l’orizzonte che si tinge di rosso. In poco tempo giungo a Pizzone, la porta delle
Mainarde molisane.
Mi fermo su un tratto di strada panoramica del paese, scatto qualche foto direttamente
dal finestrino della macchina per catturare lo spettacolo del sole che nasce, poi
mi rimetto in movimento, supero le ultime case e proseguo in salita lungo la
strada che si snoda come un lungo serpente in circa venti tornanti in una fitta
faggeta e in poco più di mezz’ora giungo nell’ampia conca prativa di Valfiorita.
Ormai è giorno ma le ultime stelle tardive brillano ancora sopra
un cielo quasi completamente azzurro. A occidente, la lunga cresta della
Metuccia è orlata da pesanti nubi che ne impediscono la vista.
Nel grande parcheggio c’è un’altra macchina che mi ha
preceduto. Non sto da solo e questa cosa mi rincuora un po’trasmettendomi una
carica in più. Indosso gli scarponi, metto lo zaino in spalla e parto. La macchina fotografica è sempre in prima linea, pronta all’uso.
Parto.
Il sentiero largo e comodo si stacca dal piazzale e si snoda tra grandi faggi
inizialmente accanto ad un piccolo ruscello che scorre silenzioso. Si raggiunge subito un’ampia radura ancora in
ombra, simile ad un anfiteatro chiuso da una cortina di alberi in veste
autunnale, dai cromatismi talmente vivi che sembrano accendersi di luce
propria.
Quando i primi raggi di sole iniziarono a colpire i rami frondosi, innumerevoli luci verdi, oro e argento si
accesero in uno spettacolo variopinto che mi distoglieva rallentando il mio
passo.
Attraversata la radura, il sentiero si restringe inerpicandosi tra la foresta,
in un tappeto di foglie e muschio profumato. Si passa accanto ad un recinto che
racchiude un serbatoio e si aggira sulla destra seguendo i bolli rossi e
bianchi.
Il tempo sembra cambiare in fretta. L’atmosfera si fa più
cupa ed i faggi si scuotono sotto forti raffiche di vento. I rami
scricchiolano, gemono, lasciano cadere una pioggia d’oro che si deposita sui
massi calcarei aggiungendo foglie su foglie.
La salita a tratti è molto ripida e faticosa. Le atmosfere
del bosco offrono sensazioni indescrivibili.
Il cielo grigio e il fitto bosco limitano la luminosità ma nonostante
questo, sembra che la foresta voglia
restituire tutta l’energia del sole assorbita durante l’estate e ogni singola
foglia si trasforma in una piccola fonte di luce calda che ammorbidisce e
rischiara tutto l’ambiente.
Al limitar del bosco, gli ultimi alberi si spingono solitari sulle aride ed
estese pietraie. Qualcuno cresce con tenacia e resistenza fra le rocce
verticali, sfidando ogni legge della fisica ed elemento climatico.
I pascoli d’alta quota regalano atmosfere più dolci e bucoliche in un ambiente
dall’aspetto selvaggio e solitario. Un gruppo di mucche pascolano nei pressi di
un antico stazzo, dove rimangono soltanto le pietre che ne delimitano il
perimetro.
Il sentiero va sempre più su, passando accanto ad una sorgente. Un
escursionista seduto su un gruppo di rocce mi volge lo sguardo. Ci salutiamo.
Mi fermo anch’io e mi tolgo lo zaino. Cerco il cappello di lana, lo metto e riparto
subito.
Gli ampi prati si restringono fino a trasformarsi in piccoli fazzoletti erbosi
racchiusi tra rocce e massi. Si sale su stretti gradini naturali mentre il valico si fa sempre più vicino, sovrastato da un cielo basso e scuro. Il vento
adesso è molto più forte e freddo.
In pochi minuti raggiungo i quasi 2000 metri del passo dei
Monaci, un luogo che per molto tempo ha rappresentato l’unica via di comunicazione tra
versante laziale e abruzzese, particolarmente battuta dai monaci benedettini dell’Abbazia
di Montecassino.
Il Gendarme del monte Meta cattura lo sguardo anche se per
metà è coperto da un cielo che sembra essergli caduto sopra. Quel sentiero che
lo attraversa sul versante meridionale è un vero solco scavato da milioni di
passi che per secoli lo hanno inciso.
Ma quel “mezzo” Gendarme è l’unica montagna parzialmente visibile sul valico,
mentre lo sguardo verso sud est si perde sulla magnifica e boscosa val Pagana
dai brillanti colori, la conca di Valfiorita con il lago delle Forme e poi ancora
oltre, sulla maggior parte delle montagne dell’Appennino molisano.
C’è qualche raro escursionista diretto sul monte Meta, in un’atmosfera sempre
più tempestosa e cupa.
La nebbia conquista la montagna fin dalla base, inghiottendo gli ultimi
escursionisti più lontani.
Dopo una breve sosta di ricognizione, decido di proseguire sui prati a
sinistra, dove non esiste un vero sentiero ma intuitivamente si segue tutta la
cresta ondulata ed erbosa fino alla vetta della Metuccia che insieme al monte a
Mare è mio obiettivo della giornata.
Sull’erba ci sono numerose tracce fresche di camosci.
Il vento romba nelle orecchie, mi spinge, mi rallenta il passo. Gli occhi
lacrimano, non vedo quasi nulla.
La nebbia mi avvolge e mi chiude come in una scatola grigia e fredda.
Stringo gli occhi in una lotta che dovrà per forza avere un vincitore, ma
quello non sono io.
Decido di rinunciare.
Torno indietro.
Il prato non è segnato, non c’è una pietra, un paletto, un piccolo cespuglio
che mi dia un punto di riferimento. Nulla, soltanto erba bassa frustata dal
vento. Vado in discesa cercando di riconoscere un particolare, anche piccolo e
insignificante che avevo visto salendo, ma tutto sembra essere uguale.
Non credevo di aver camminato così tanto dopo aver raggiunto il passo dei
Monaci.
Quando avevo deciso di rinunciare, l’altimetro segnava già 2100 metri. Se
procedevo per un altro quarto d’ora sarei probabilmente arrivato in cima, ma
avrei avuto bisogno di un sicuro punto di orientamento perché la vetta della
Metuccia non si trova esattamente lungo la cresta ma leggermente spostata sulla
sinistra e poi, al di là delle sfide con noi stessi e con l’ambiente, la
montagna la vivo da sempre con lo scopo principale di fotografarla nei piccoli
e grandi particolari, ammirando i suoi paesaggi e spazi sconfinati, perdendomi
nella contemplazione e trovando quella sintonia che mi unisce all’ambiente,
somatizzandone i contenuti anche non visibili, cosa che nebbia e maltempo non
permettono rischiando di andare contro la mia vera passione.
Vado sempre in discesa e l’inquietudine
sale. Mi metto anche a correre sul prato cercando di raggiungere al più presto
il valico.
Una striscia irregolare di pietre calcaree a destra segnano
il bordo del prato, dove inizia il precipizio che in condizioni di migliore
visibilità, sarebbe stato uno spettacolare punto di vista tra i balzi rocciosi
che scendono a picco sui prati sottostanti. Finalmente ritrovo un punto di
riferimento.
Seguo il bordo del prato e inizio a scorgere un panorama più vasto che mi aiuta
nell’orientamento.
Adesso sono di nuovo al passo dei Monaci e ritrovo il sentiero nonchè il mio
entusiasmo di sempre.
L’abbassamento di quota segna anche il limite delle nubi che
ora restano relegate oltre la quota del valico, continuando a rovesciarsi con
violenza sui fianchi delle montagne. Un ultimo sguardo ancora, verso quella forte manifestazione della
natura che nonostante mi abbia fatto rinunciare all’obiettivo della giornata,
mi trasmette forza e ammirazione.
Ripercorro in discesa le praterie alte, passo accanto alla
sorgente, saluto le mucche, raggiungo i primi alberi isolati ed entro nella
faggeta dove il vento agita le chiome con violenza e dove il vigoroso stormire
del fogliame è simile al fragore di una grande cascata che non finisce mai e
che mi accompagna fino alla macchina.
Queste Mainarde così generose e prodighe di emozioni, mi
salutano con le prime gocce di una pioggia leggera che mi accompagna per il
breve viaggio fino a casa.
Mi sento soddisfatto e sono certo, tra le tante emozioni, di aver persino
vissuto qualche breve attimo di felicità.