Il cielo è ancora pieno di stelle mentre guido in una fresca
mattina di gennaio.
E’ un momento della giornata in cui prevale ancora il silenzio, prima che
l’oscurità ceda il posto alla luce del giorno e il mondo riprenda le attività
quotidiane con i soliti rumori che invadono la maggior parte degli spazi. Viaggio con l’autoradio spenta per godermi ancora quel silenzio e concentrarmi
meglio.
Sento addosso quella piccola dose di ansia sempre presente ogni volta che vado incontro ad una nuova esperienza, ma so che fa parte del gioco perché senza di quella sarei come un finto artista da palcoscenico che delude il suo pubblico recitando senza emozioni.
Mi dirigo senza correre verso il luogo di appuntamento dove troverò gli amici Caterina, Alessandro e Andrea che mi aspettano.
Lungo il tragitto mi sorprende la nebbia, dapprima come un
fumo chiaro e lieve che dai fossati risale lungo il fianco dei colli, catturando
la luce artificiale che illumina alcuni tratti di strada, poi sempre più densa
ed estesa fino a ricoprire le pianure e invadere l’autostrada.
Diminuisco l’andatura cercando attentamente di individuare i segnali stradali che mi guidano fino al luogo dell’appuntamento. Alcune telefonate dei miei amici mi fanno capire di essere in ritardo e che mi hanno già dato per disperso ma alla fine mi unisco a loro, ci riuniamo in una sola macchina e ripartiamo tutti insieme verso l’Abruzzo.
Diminuisco l’andatura cercando attentamente di individuare i segnali stradali che mi guidano fino al luogo dell’appuntamento. Alcune telefonate dei miei amici mi fanno capire di essere in ritardo e che mi hanno già dato per disperso ma alla fine mi unisco a loro, ci riuniamo in una sola macchina e ripartiamo tutti insieme verso l’Abruzzo.
Lungo la strada, il chiarore dell’alba tinge il cielo di
rosa e la luce del giorno conquista gradualmente la scena. Anche la nebbia sembra farsi meno fitta
svelando profili di colline e montagne che ora ci appaiono più nitide e dai
colori brillanti sotto un cielo dalle sfumature turchesi.
Il nostro viaggio in auto termina lungo la strada che va da
Assergi al passo delle Capannelle, in un piccolo slargo dove parcheggiamo, in
corrispondenza del bivio per il piccolo Santuario di San Pietro della Ienca, una
deliziosa chiesetta di campagna che Papa Giovanni Paolo II frequentava in
segreto per abbandonarsi alla contemplazione di quelle montagne che lui amava
tanto. Il luogo è davvero straordinario, inserito in un contesto naturalistico
e paesaggistico di grande suggestione, pace e serenità che andrebbe visitato
almeno una volta nella vita.
Iniziamo a camminare carichi di entusiasmo, calpestando la terra
ghiacciata di un largo sentiero che ben presto abbandoniamo per salire più
direttamente verso l’imponente bastionata alla base della catena occidentale
del Gran Sasso.
L’erboso crinale risulta molto scosceso e inciso da profondi
solchi oscuri e silenziosi che il sole ancora radente non riesce a illuminare
e dove resistono lunghi nastri di neve modellata dal vento. Fitte macchie di profumati
ginepri punteggiano la prateria e le mucche al pascolo ci rivolgono il loro sguardo assente ma curioso.
La salita è molto faticosa e il sudore si fa strada sulla
nostra fronte incoraggiato anche da un tiepido sole che scalda l’aria. Il cono
semi innevato del Pizzo Camarda ci appare a destra, sempre alla stessa distanza
nonostante i nostri sforzi per raggiungerlo ma volgendo il nostro sguardo
all’indietro, ci accorgiamo che la valle sotto di noi si allarga allontanandosi
sempre di più, e questo è un buon segno.
Dopo un ultimo faticoso strappo in salita, raggiungiamo un
largo sentiero, quello ufficiale, che corre di traverso sul fianco della
montagna e che di conseguenza attenua la pendenza e soprattutto la nostra
fatica. Riprendiamo un po’ di fiato e con un passo più regolare e spedito giungiamo
ad un rifugio abbandonato. Qui ci concediamo una breve sosta, curiosando all’interno
della struttura dove scopriamo che le stanze
sono invase da una spessa coltre di neve entrata dalle porte e dalle finestre
rotte. Proviamo ad immaginare che bella corrente d’aria doveva esserci all’interno del
rifugio durante le bufere. In alcuni angoli delle stanze lo spessore della neve
raggiungeva quasi l’altezza di una persona.
Usciamo dal rifugio e riprendiamo il nostro cammino percorrendo
un largo avvallamento molto innevato e in lieve salita, chiuso ai lati da due
rilievi da cui il vento aveva spazzato via la neve lasciando allo scoperto un
fitto manto di erba gialla con alcuni cardi rinsecchiti dal capolino ripiegato
all’ingiù, come in un lungo e infinito inchino.
La neve è più spessa ma si cammina agevolmente grazie alla superficie indurita dal gelo.
La neve è più spessa ma si cammina agevolmente grazie alla superficie indurita dal gelo.
Brevemente giungiamo allo splendido Piano di Camarda, un sorprendente
ambiente piatto e regolare che ci dà subito l’impressione di essere uno di quei
luoghi ai confini del Mondo, che non si è capaci di ricostruire neppure con una
spiccata immaginazione.
Nel pianoro si adagiano due piccoli laghi ghiacciati
tra praterie color giallo ocra e macchie di neve che ravvivano l’insieme.
Il cielo azzurro contrasta con i prati bruciati dal gelo. Il sole si riflette con
una luce abbagliante sulla superficie bianca e lucida dei laghi lungo le cui
rive il vento ha modellato la neve in onde sovrapposte che si perdono nella
pianura fino a confondersi tra la neve più distante.
Anche qui notiamo vecchi cardi dai fusti tutti piegati nella stessa direzione,
come tanti soldatini arresi dalla violenza degli agenti atmosferici.
Verso nord, un vasto e movimentato panorama si perde fino
alla linea dell’orizzonte ma ciò che cattura lo sguardo e domina su tutto è la
brillante superficie celeste del lago di Campotosto, circondato da un tripudio
di alture, rilievi, macchie boscose, vette innevate e altri mille elementi dai
diversi colori che creano il più bel quadro impressionista di sempre.
Sul Piano di Camarda si supera la quota dei 2000 metri.
Lo attraversiamo da un lato all’altro raggiungendo la parte più orientale del
prato, da dove ha inizio la cresta panoramica che ci porterà in vetta.
I miei amici mi distanziano con un passo più veloce, mentre io mi soffermo ancora per un momento accanto ad uno dei due laghi ghiacciati, quello più orientale e grande, per cercare qualche altra interessante inquadratura e scattare l’ultima foto.
I miei amici mi distanziano con un passo più veloce, mentre io mi soffermo ancora per un momento accanto ad uno dei due laghi ghiacciati, quello più orientale e grande, per cercare qualche altra interessante inquadratura e scattare l’ultima foto.
D’improvviso un rumore metallico desta la mia attenzione, come di colpo sordo e forte che si ripercuote nello stomaco. Poi, dopo qualche secondo un altro, meno forte del precedente. E’ la superficie ghiacciata del lago che geme sotto la pressione del ghiaccio che si assesta.
La voce del ghiaccio.
Mi fermo un attimo ad aspettare nella speranza di risentire quella “voce”, ma vedo i miei amici che si allontanano e devo affrettarmi per raggiungerli.
Mi fermo un attimo ad aspettare nella speranza di risentire quella “voce”, ma vedo i miei amici che si allontanano e devo affrettarmi per raggiungerli.
Affrontiamo l’inizio della cresta in ripida salita. Ultima
fatica della giornata ma anche la più bella ed emozionante. Da questa posizione
infatti, si svela il profilo di uno dei tanti giganti del Gran Sasso, il più
arcigno per carattere, il più ostico da domare che se ne sta lì isolato da
tutti, inviolabile come un tempio sacro, invincibile come il più valoroso dei
soldati dall’armatura d’argento che scintilla al sole, riconoscibile tra mille
montagne, con le sue rocce stratificate disposte in lunghissime bande
orizzontali, il monte Corvo, 2623 metri di fiera bellezza.
La visuale ci invoglia ancora una volta a sostare e scegliamo
quella muraglia rocciosa come sfondo alle nostre foto. L’aria è limpida, il
cielo è terso. La luce del sole rende la neve più bianca e brillante sulle
rocce rossastre del monte Corvo creando bellissimi contrasti. Quasi ci dispiace
lasciare quel balcone panoramico che offre così tanto splendore, ma si deve proseguire per raggiungere la vetta
che ormai è prossima.
Refoli di vento si alzano da est con raffiche talvolta anche molto forti.
Il versante che percorriamo è esposto e non possiamo evitare il forte respiro
della montagna. L’erba ondeggia con movimenti veloci mentre l’aria sibila tra
le rocce basse.
Proseguiamo piegando leggermente sul crinale occidentale,
sempre in salita e sempre più prossimi alla vetta.
Ormai manca davvero poco e la
stanchezza viene annullata dalla consapevolezza di aver finalmente terminato
l’impresa. Anche il vento sembra essersi attenuato.
Alessandro e Andrea hanno già raggiunto la vetta, li vedo mentre trafficano intorno alla piccola ed elegante croce di vetta. Caterina è a pochi metri davanti a me ed io chiudo la fila.
Giungiamo quasi insieme dopo pochi istanti.
In vetta il vento riprende a soffiare forte, sempre da est e sembra quasi un genitore apprensivo e protettivo che si preoccupa per noi e ci spinge lontani dall’immane strapiombo che precipita dal bordo della vetta fino a perdersi sul fondo della parete orientale.
In fondo all’abisso c’è una selvaggia valle, innevata e ombrosa, poi altre immani pareti di
roccia si elevano fino a formare una profusione di cattedrali di roccia,
concatenate tra di loro grazie a creste che ne seguono i profili e poi
precipitano di nuovo in basso formando altre strette valli che poi a loro volta
si impennano alzandosi vertiginosamente fino a culminare con altre vette dagli
eleganti profili. Vette celebri come il Pizzo d’Intermesoli, il Corno Grande e
il colossale baluardo delle Malecoste, intarsiato da una miriade di pinnacoli
rocciosi incrostati di ghiaccio, dove il volo fiero e roteante dell’aquila
sottolinea la solennità di ogni elemento che compone il quadro.
Verso ovest, le pianure, gli altopiani e le montagne lontane
si susseguono in un continuo alternarsi di profili azzurri che sembrano sospesi
sulle chiare foschie di fondovalle.
I paesi sparsi nelle conche e in cima alle colline scandiscono il carattere più antropico del versante occidentale.
La linea di cresta del Pizzo Camarda segna proprio il confine tra questi due mondi così diversi.
Dopo una sosta in vetta, ci apprestiamo a scendere di
qualche decina di metri sulle dolci e ondulate praterie verso il dolcePiano di
Camarda, dove anche il vento cala d’intensità permettendoci di pranzare in
tutta tranquillità e riposarci. In una giornata così perfetta non poteva
mancare il gusto di assaporare un pasto semplice ma ricco di prelibatezze, in
gran parte condivise, come lo squisito pan giallo di Andrea e i due fragranti strudel
di Caterina.
Il ritorno avviene per la stessa via di salita, con qualche
variante che ci porta a percorrere uno stretto sentiero che zigzagando
addolcisce l’estrema ripidità del versante e ci porta su un vasto prato in
lieve discesa, ricco di macchie di ginepri profumati e altre piccole conifere.
Infine, raggiungiamo la larga via sterrata di inizio percorso che ci porta alla macchina.
Infine, raggiungiamo la larga via sterrata di inizio percorso che ci porta alla macchina.